IL TRIENNIO OPERAIO 1968 - 1971

 

Tratto da: digilander libero

 
Le lotte operaie 1968-71
e l’internazionalismo militante

 
 
 
(Tratto dall'omonimo opuscolo pubblicato il 15/2/1972)

Gli anni che vanno dal 1968 al 1971, visti in relazione al movimento operaio, costituiscono un periodo unitario. Anche se questo periodo può essere suddiviso in più fasi, questi quattro anni rappresentano, tuttavia, un ciclo unitario di lotte. Chiamiamo questo periodo: il risveglio proletario. Lo definiamo così perché è a partire dal 1968 che il proletariato italiano incomincia a scuotersi, sistematicamente, dalla soggezione padronale; a sottrarsi alla tutela sindacale; a riprendere l’iniziativa della lotta anti-capitalistica; a riconquistare la propria autonomia di classe.

Questo risveglio, bisogna aggiungere, non è un fenomeno esclusivamente italiano. È un fenomeno più vasto. Ha dimensioni europee e, in definitiva, mondiali. La sveglia venne data dal maggio francese nel 1968. Il dicembre polacco ne fu il seguito due anni dopo, nel 1970. Le lotte dei neri negli Stati Uniti; le insurrezioni nel Bengala e a Ceylon, durante il 1971, ne costituiscono un momento ulteriore di sviluppo. In qualunque modo si sono provvisoriamente conclusi, in tutto o in parte, questi movimenti di lotta, ciò che conta effettivamente è la loro tendenza storica. E la tendenza inconfondibile, che affiora dalla marcia degli avvenimenti, è che questi movimenti rappresentano, non segni di una normale evoluzione nazionale, ma bagliori di una ripresa generale della lotta di classe.

Sulla portata sociale e sul significato politico di questo periodo di lotte vengono dette le cose più disparate. Per i partiti riformisti &emdash; PCI, PSI, PSIUP &emdash; e le confederazioni sindacali &emdash; CGIL, CISL, UIL &emdash; le lotte di questo quadriennio costituiscono un fattore di crescita nello sviluppo democratico del paese e sarebbero, quindi, un elemento propulsore nel funzionamento del sistema. Per i movimenti spontaneisti &emdash; ci riferiamo a quelli che sono stati per alcuni anni sull’onda degli avvenimenti come Potere Operaio e Lotta Continua &emdash; le lotte operaie hanno rotto il ciclo capitalistico, inceppando il meccanismo dell’accumulazione. Di conseguenza, secondo costoro, esse porterebbero il capitale alla sua fine. Tra queste due posizioni estreme, o meglio tra la teoria della funzione fisiologica delle lotte operaie e quella del collasso, si accavallano tante altre teorie quanti sono, pressappoco, i raggruppamenti extra-parlamentari. In questo stato di cose non c’é chi non veda la necessità, sul piano strategico, di una valutazione corretta del valore effettivo di queste lotte. In sostanza si tratta di stabilire qual’è l’essenza del periodo attuale: se siamo in un periodo rivoluzionario o se viviamo in un periodo controrivoluzionario, o in cos’altro di diverso.

In merito a ciò, sulla nostra stampa esiste un vasto ed aggiornato materiale analitico. Perciò in questo scritto non analizziamo a fondo la questione; ci limitiamo, soltanto, ad uno sguardo d’insieme. E, nel far questo, teniamo a precisare, prima di tutto, e in linea di principio, qual’è il ruolo giuocato realmente dalle lotte operaie. La lotta operaia è la forma più elementare di lotta di classe. È quella che gli operai fanno quotidianamente contro gli sfruttatori capitalisti o padroni. Comunque varii il contenuto delle rivendicazioni avanzate con questa forma di lotta essa di per sé stessa non è, né fisiologica al sistema, né distruttiva del sistema. È un conflitto sociale, più o meno grave ed acuto a seconda dei casi, che si svolge e si ricompone, stabilmente, nell’ambito dei rapporti esistenti. Finché le lotte operaie restano confinate entro limiti economici, restano assorbibili dal capitalismo. Solo quando esse sono legate ad una autonoma prospettiva politica diventano, invece, un elemento di instabilità del sistema. Tuttavia la circostanza che le lotte operaie sono assorbibili dal capitalismo non significa che esse sono funzionali al suo sviluppo. Ogni lotta operaia, anche la più modesta, pone sempre problemi nuovi al capitale; il quale per superarli è costretto ad agire sulla propria stessa base e, quindi a generare problemi più vasti di quelli risolti. Pertanto la lotta operaia rimane sempre, in ogni caso, una manifestazione di antagonismo sociale. Che, alla fine, le lotte operaie si traducano in uno stimolo per l’apparato industriale; o che diventino, al contrario, un punto di partenza per un più vasto movimento di lotta, tutto questo dipende in ultima analisi da due condizioni principali: primo dai rapporti di forza tra le classi; secondo dal livello politico del proletariato. Comunque, perché le lotte operaie incidano profondamente sui rapporti sociali è indispensabile che esse siano collegate a una strategia rivoluzionaria. Fatta questa chiarificazione di principio, passiamo a stabilire qual è, in concreto, la portata di questo ciclo di lotte.

Le lotte operaie del periodo 1968-71 sono, al contempo, un’espressione e un fattore della crisi di regime che attraversa la borghesia italiana. Quindi, per valutarne appieno la portata, bisogna considerarle nel quadro degli sviluppi di questa crisi e come elemento dinamico di essa. La crisi di regime, di cui si parla qui, non va confusa con la crisi economica. La crisi di regime è la crisi politica l’impotenza attuale del potere borghese a sanare i conflitti politico-sociali. Questa crisi si è aperta nel 1968, al culmine di un lungo periodo di espansione capitalistica come prodotto delle contraddizioni economiche e sociali generate da questo sviluppo. Ecco a grandi linee in che modo si è arrivato a ciò. Dal 1945 il capitalismo italiano ha attraversato, essenzialmente, tre distinti periodi di sviluppo. Il primo è il periodo della ricostruzione che va, grosso modo, dalla fine della guerra al 1950 circa. Il secondo è il periodo della espansione estensiva che va dal 1950 al 1962. Il terzo è quello dell’espansione intensiva che parte dalla crisi economica del 1963/64 e va fino al 1969. Col 1970-71 è iniziato un periodo di stagnazione e di crisi, che pone all’industria italiana problemi acuti di riorganizzazione tecnica su larga scala, all’interno ed all’estero. I tratti economici fondamentali dell’intero stadio di sviluppo sono stati: l’espansione dei monopoli la rapida crescita dell’industria col progressivo spopolamento delle campagne; il rigonfiamento del settore terziario; la crescente compenetrazione internazionale del capitale nel quadro di un continuo flusso emigratorio. Ne sono derivate profonde modificazioni sociali. Le principali sono: la borghesia monopolistica si è ristretta a un pugno di grandi finanzieri accentranti nelle loro mani le leve economiche; il proletariato è cresciuto numericamente e con un ritmo di concentramento maggiore della crescita; la media e la piccola-borghesia imprenditrici sono state, via via, ridimensionate; si sono andati dilatando i ceti medi e la piccola borghesia parassitari. L’espansione dei monopoli ha così portato a un aggravamento delle condizioni di vita e di lavoro delle masse sfruttate. Gli aspetti più tipici di questo portato, propri del terzo periodo, sono: la costante riduzione delle forze-lavoro occupate con l’espulsione delle donne dalla produzione e l’intensificazione dei ritmi di lavoro; risultati entrambi dovuti alla razionalizzazione aziendale che caratterizza lo sviluppo intensivo. Questi aspetti toccano il culmine nel 1968. Nella primavera del 1968 scoppiano i primi scioperi spontanei. Masse crescenti di lavoratori scendono in lotta per ribellarsi contro il peggioramento delle loro condizioni di vita, dentro e fuori della fabbrica. Le prime grandi lotte investono, in tal modo, il salario e le condizioni di lavoro. Uno dopo l’altro grandi e piccoli complessi industriali vengono bloccati dagli scioperi. Gli scioperi spontanei dilagano anche nelle cosiddette fabbriche difficili, in quelle cioè ove da molti anni regnava la pace sociale. Dal 1968 e per tutto il 1969 fino ai primi mesi del 1970 la marea delle lotte operaie è montante. Sotto l’impulso di rivendicazioni ugualitarie la partecipazione alle lotte diventa generale. La punta avanzata del movimento è costituita dagli operai di linea; da quegli operai che il più recente sviluppo capitalistico ha svuotato di ogni abilità professionale rendendoli intercambiabili. Per questo i reparti più combattivi vengono animati dagli elementi più giovani. Nel clima di una crescente combattività nascono nuovi strumenti di attività operaia; assemblee, delegati, comitati di agitazione. E si ha, quindi, un certo sviluppo della coscienza politica.

L’ondata di scioperi giunge quando nelle scuole dilagano, da parecchi mesi, le agitazioni studentesche. Il quadro politico, già visibilmente instabile, subisce così uno scossone. Lo sviluppo degli scioperi agisce come una doccia fredda sul connubio monopoli dinamici aristocrazia operaia, dissolvendo il disegno del riformismo governativo mirante ad uno sviluppo pianificato dell’economia col beneplacito della classe operaia. In questo modo i contrasti tra la fazione riformista della borghesia e la fazione autoritaria si fanno acuti e la crisi di regime entra in una fase viva. Non riuscendo i Sindacati a contenere entro gli argini della tollerabilità industriale la marea di scioperi, governo e padronato scatenano i loro apparati repressivi. Sugli operai in lotta piovono arresti, denunce, rappresaglie. Nonostante l’impiego sistematico dei più vari strumenti di intimidazione, governo e padroni non riescono nel loro tentativo di stroncare la combattività operaia. Ottengono l’effetto opposto: la radicalizzazione delle lotte. Infatti, rinnovati i maggiori contratti di lavoro, le lotte non cessano; assumono nuove forme e contenuti più incisivi. Gli scioperi di massa dei due anni prima (1968-69) si trasformano nel 1970 in guerriglia industriale. Nei maggiori complessi vengono attuati frequentemente: il salto della scocca, l’autolimitazione dei ritmi, il blocco delle merci. L’autorità padronale è messa, di fatto, in discussione. Sui luoghi di lavoro si instaura un clima di tensione e di insubordinazione.

I sindacati contavano, una volta conclusi i contratti, di ricondurre il movimento operaio nello spirito di una rinnovata collaborazione di classe. Ma i loro calcoli si sono dimostrati sbagliati. Essi hanno frainteso lo stato d’animo delle masse e la natura della crisi attuale. Perciò, quando nel 1970 si mettono a strombazzare la strategia delle riforme (cioè a dire l’alleanza operai e industriali contro rendita e speculazione), promuovendo una tornata di scioperi per le riforme nell’intento di alleggerire la tensione regnante nelle fabbriche, essi ottengono risultati o nulli o controproducenti. Da un canto la tensione permane nelle fabbriche. Dall’altro, invece di risolverli, contribuiscono ad aggravare gli squilibri tra Nord e Sud, ai danni del Mezzogiorno. Il che genera nuovi attriti all’interno delle stesse confederazioni sindacali. Man mano, però, anche la strategia delle riforme salta nelle mani ai Sindacati. La stagnazione della produzione industriale, che nel corso del 1970 non accenna a risalire, rende sempre più impellente la ripresa produttiva; ripresa che non può avvenire senza un aumento dello sfruttamento operaio. I Sindacati non esitano a far propria questa esigenza borghese e a fare del rilancio economico il loro cavallo di battaglia. Così, quel distacco tra Sindacati e masse, che gli scioperi spontanei del 1968 avevano messo trasparentemente in luce, è andato via via crescendo, anche se con fasi alterne. Un numero crescente di operai guarda con sospetto le centrali sindacali e ciò indipendentemente dalla propaganda rivoluzionaria.

Col 1971 tutti i fattori di tensione sociale, economici e politici, operanti negli anni precedenti si acutizzano. La crisi di regime, aggravata dall’andamento recessivo dell’economia, passa a un grado maggiore di acutezza. Inizia una fase più aspra nei rapporti operai-padroni. I padroni cercano di far fronte alla necessità di riorganizzare tecnicamente l’industria, necessità acuita dallo sviluppo della concorrenza e della crisi, attuando ampi processi di ridimensionamento della manodopera occupata, introducendo metodi di sfruttamento più intensivi . Gli operai sono così costretti a dure lotte per resistere a questi processi e contrastare la pressione del capitale. Questa fase è in pieno svolgimento. E i contrasti sociali di cui essa è piena, si combattono giorno per giorno senza aspettare alcun scadenziario. Possiamo dire che è dall’esito di questa fase che dipenderà, praticamente, l’epilogo del ciclo di lotte apertosi nel 1969. O la classe operaia saprà uscire da questa fase con un fermo orientamento rivoluzionario, con una rafforzata organizzazione delle forze d’avanguardia; o il capitale riorganizzato la piegherà ancora una volta, per un certo periodo di tempo, alle proprie esigenze di sopravvivenza e di sviluppo.

Riassumendo. Le lotte operaie del periodo 1969-71 rappresentano il momento d’avvio del processo di ripresa proletaria. Non abbiamo, certo, la rivoluzione alle porte. Ma nemmeno predomina la controrivoluzione. La borghesia attraversa la sua prima grave crisi di regime dal dopoguerra. Sempre più insicura del proprio avvenire, essa è profondamente suddivisa al proprio interno. Gli stessi partiti riformisti sono costretti a ricorrere, sempre più spesso, alla violenza dello Stato per difendere la propria esistenza organizzata dagli attacchi improvvisi delle masse oppresse. La situazione è, dunque, di crisi. Crisi di regime ancora; non crisi rivoluzionaria. Ci stiamo appena incamminando sulla strada della rivoluzione. Questo il significato politico delle lotte operaie dei quattro anni trascorsi.

Se ora rivediamo le due teorie sopra menzionate, la teoria fisiologica e quella del collasso, ci accorgiamo che queste hanno un comune vizio ideologico, che gli estremi si toccano. I riformisti riducono le lotte operaie a espressioni dello sviluppo capitalistico e, in fondo non concepiscono altra via di sviluppo sociale all’infuori di quella capitalistica (o democratica come essi la chiamano). Gli spontaneisti ingigantiscono la portata delle lotte operaie, immaginando che il capitalismo crolli sotto la semplice pressione generalizzata degli operai. Il vizio ideologico comune di queste due posizioni estreme consiste nel fatto che esse derivano da una concezione borghese della lotta di classe. Nei primi oggettivista o meccanicista. Nei secondi soggettivista.

All’oggettivismo economico dei riformisti, gli spontaneisti contrappongono il soggettivismo organico, la costante ribellione operaia all’organizzazione capitalistica del lavoro; o, il che è lo stesso, l’insubordinazione del capitale variabile (forza-lavoro) nei confronti del capitale costante (macchinario). Questa contrapposizione è senza sbocco proletario. È una specie di vicolo cieco, da cui non c’é via di uscita per le masse operaie. Perciò, alla fine, essa conferma il termine negato.

La classe operaia ha fatto sì sentire la sua voce con gli scioperi spontanei. Col proprio spontaneismo, con lo spontaneismo degli spontaneisti, ha messo in crisi il controllo sindacale. Ma lo spontaneismo non poteva sostituirsi a questo controllo. Così i burocrati sindacali, che in un primo tempo subirono uno scossone dallo spontaneismo anti-sindacale, alla fine se ne avvantaggiarono, assorbendolo come uno schiaffo salutare. Per sostituire la direzione riformista dei Sindacati con una direzione rivoluzionaria non basta il ripudio della burocrazia sindacale o l’autorganizzazione operaia. Occorre l’organizzazione politica del proletariato, il partito rivoluzionario che ne coordini il movimento e ne diriga le lotte.

Dal 1968 sono stati fatti molti passi avanti nella comprensione di questa necessità. Da allora c’è stata una progressiva presa di coscienza del ruolo insostituibile dell’organizzazione d’avanguardia. Il franamento dello spontaneismo, dopo il fiasco della contestazione studentesca e del maoismo, sgombra il cammino a questa presa di coscienza da un elemento ritardatore. Oggi la gioventù operaia si orienta in modo più deciso di prima, verso le posizioni rivoluzionarie. Guarda con interesse alle idee di Lenin sul partito. Simpatizza con certe nostre indicazioni pratiche tuttavia c’è chi in nome del leninismo è ancora convinto, dopo l’esperienza degli ultimi quattro anni, che il problema dello sviluppo rivoluzionario risieda nella comprensione della natura del revisionismo; nel sapere cioé di che razza sono i partiti riformisti. Chi la pensa così propone, in sostanza, di ritornare alla coscienza politica anteriore al 1968. Noi non contestiamo a nessuno la libertà di dire quello che gli pare e piace; ma non ci si vengano a spacciare i problemi della propria incerta coscienza per leninismo o analisi leninista. Gli operai capiscono molto bene che i riformisti sono opportunisti e alla resa dei conti, controrivoluzionari. Questo l’hanno visto, e lo vedono sempre più chiaramente, da loro stessi nelle fabbriche e fuori delle fabbriche. Quello che gli operai vogliono vedere è che i rivoluzionari dimostrino coi fatti di valere questo appellativo; di sapersi battere contro il padronato e il potere borghese meglio dei riformisti (che lo fanno solo a parole e quando lo fanno), di sapere indicare &emdash; praticamente &emdash; la via della rivoluzione. Rigirare ancora tra le mani la questione di che razza sono i riformisti, significa rigirarsi ancora in mezzo ai propri dubbi politici; stare al centro tra gli opportunisti e i rivoluzionari.

Come segno del risveglio proletario le lotte operaie di questi anni costituiscono una promessa per la rivoluzione e allo stesso tempo un banco di prova per i rivoluzionari. Aprono possibilità prima inesistenti; ma esigono un impegno crescente. La borghesia non può risolvere la sua crisi, politica ed economica, senza smantellare la forza offensiva del proletariato. Il proletariato non solo può resistere all’attacco borghese, ma può anche progredire. Perché ciò avvenga, perché si sviluppi la capacità offensiva del proletariato occorre che queste lotte si traducano in forme adeguate di organizzazione, diventino il punto di partenza per raggiungere traguardi più importanti. Battaglie decisive sono in vista. Compito dell’internazionalismo militante è quello di assicurare questo passaggio.

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